Premesso che non è possibile conoscere l’esatto funzionamento né di Chrome, né degli algoritmi di Google, il recente data leak sembrerebbe confermare alcune ipotesi che da tempo aleggiano tra gli esperti di SEO (Search Engine Optimization).

In particolare, alcuni documenti oggetto del data leak si riferiscono a tre aspetti piuttosto rilevanti del funzionamento di Chrome:

  • Chrome potrebbe inviare a Google diversi dati di dettaglio sui click compiuti dall’utente (clickstreams), allo scopo di migliorare i risultati delle ricerche compiute su Google dall’utente stesso
  • Chrome contribuirebbe ad inserire dati in almeno due sistemi (denominati NavBoost e Glue) che raccoglierebbero i dati di navigazione degli utenti allo scopo di identificare le tendenze di ricerca e migliorare la qualità dei risultati della ricerca stessa
  • I dati di Chrome verrebbero utilizzati da Google per combattere lo spam e per migliorare la qualità delle ricerche attraverso l’analisi della cronologia dei cookie e delle interazioni compiute dagli utenti nei siti che navigano.

Naturalmente dobbiamo tenere conto che siamo nel campo delle ipotesi: il fatto che i documenti oggetto del leak riflettano in tutto e per tutto il funzionamento dell’ecosistema di Google è tutto da dimostrare.

Peraltro, non si può nemmeno escludere che il data leak sia intenzionale: una mossa di Google per focalizzare l’attenzione sulle “vecchie” prerogative del proprio motore di ricerca, in attesa che esso venga rivoluzionato dall’AI, sulla quale Big G sta investendo molte risorse.

Detto questo, il recente data leak ci riporta a considerare le due esigenze contrapposte degli utenti: da un lato la volontà di fruire di servizi digitali sempre più evoluti e personalizzati e dall’altro il desiderio (sacrosanto) di tutelare la propria privacy.

Queste due esigenze contrapposte molto spesso danno luogo a dei comportamenti incoerenti: gli utenti rifiutano di essere tracciati online (ad esempio cliccando la X sul cookie banner), ma acquistano ed utilizzano assistenti vocali come Alexa o Google Home, che per la loro stessa natura ottengono una mole notevole di dati sui loro utilizzatori e sulle loro abitudini.

In questo contesto, se da un lato le tecniche utilizzate da Google per la raccolta dei dati possono apparire spregiudicate, dall’altro riflettono gli sforzi compiuti da Google per migliorare l’esperienza degli utenti con i propri servizi.

Infine, dobbiamo considerare che molti addetti ai lavori in questi casi utilizzano il principio filosofico del “Rasoio di Occam”, secondo il quale “la risposta più semplice è quasi sempre quella corretta”.

Ad esempio, alla domanda “Perché Google ha creato Chrome?“, la risposta più semplice è “Per ottenere il maggior numero possibile di dati di navigazione dai propri utenti“.

A prescindere dalla veridicità di questa risposta, dal punto di vista pratico registriamo che le informazioni ottenute dai leak sono coerenti con molte supposizioni avanzate negli anni dagli esperti SEO riguardo il funzionamento degli algoritmi di Google; di conseguenza, al netto della notizia eclatante, il data leak non comporta delle conseguenze pratiche rilevanti né per gli utenti, né per gli addetti ai lavori.

Matteo Zambon (Alpha e Beta tester di Google | Co-Founder di Tag Manager Italia)

Roberto Guiotto (Co-Founder di Tag Manager Italia)

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